Parigi, Opéra Bastille, “Werther” di Jules Massenet
I DOLORI DEL TENORE FANNO LE GIOIE DEL BARITONO
Werther, l’opera più riuscita di Massenet e una delle più rappresentate all’Opèra Comique, non ha avuto analogo spazio nella programmazione dell’Opéra di Parigi (tradizionalmente poco orientata al repertorio francese di fine Ottocento) che ora colma la lacuna proponendola nella doppia versione per tenore e baritono con Rolando Villazòn e Ludovic Tézier che si alternano nel ruolo protagonista. Poiché l’atteso tenore messicano ha preferito non cantare alla prima, considerate le precarie condizioni vocali, la direzione del teatro ha scommesso sulla versione baritonale vincendo la sfida e trasformando una catastrofe annunciata in un trionfo incondizionato. La duplice proposta dà modo di confrontare le due versioni dell’opera di Massenet, che, insoddisfatto dalla vocalità tenorile poco adatta al tormentato personaggio di Werther, rimaneggiò la partitura dieci anni dopo riscrivendo completamente la parte per il baritono Mattia Battistini. Tale versione ebbe scarsissima circolazione e solo di recente è stata riproposta. L’ascolto lascia sorpresi e affascinati: è un’altra opera, non un semplice cambio di tessitura. La vocalità baritonale stravolge l’impostazione del ruolo, caratterizzato fin dall’inizio da maggiore maturità e pessimismo (forse più vicino a Goethe), non c’è più spazio per l’idillio ma solo per il dramma, la mancanza di acuti è un po’ straniante e “Pourquoi me reveiller “ è piuttosto brutto, ma c’è maggiore continuità drammatica e certe pagine “abusate” e un po’ stucchevoli acquisiscono nuova forza e crudele intensità.
E’ evidente che l’operazione non sarebbe riuscita senza un’interprete del calibro di Ludovic Tézier che, oltre alla voce profonda, duttile e ricca di sfumature (che si adatta alla partitura come un guanto), trova perfezione di fraseggio e di accento con un lavoro sulla parola e sulle inflessioni della lingua francese frutto di un notevole approfondimento del ruolo. Ludovic Tézier, a cui viene talvolta rimproverata freddezza interpretativa, qui convince anche dal punto di vista scenico per come incarna il poeta introverso e tormentato, con lo sguardo febbricitante perso nel vuoto, un libricino stretto fra le mani con nevrosi ossessiva per rimanere aggrappato ai propri versi, incapace di integrarsi in un mondo piccolo borghese con cui non ha nulla in comune. Per dovere di cronaca precisiamo che Ludovic Tézier è impegnato in tutte le recite poiché, oltre a Werther, interpreta Albert nella versione per tenore .
Al di là dell’aspetto matronale, Susan Graham convince pienamente nel ruolo di Charlotte per la voce omogenea e sontuosa (ma ancora fresca come richiede la parte), ricca di sottigliezze e sfumature e per la dizione e prosodia curate che non sfigurano in un cast per lo più francese. La cantante, inoltre, sottolinea l’evoluzione e la crescita di Charlotte con un’interpretazione in crescendo, vibrante e al tempo stesso carezzevole, come vuole Massenet.
Sofia Kucerova,così agile e leggera, sembra davvero una ragazzina di quindici anni, ed è un ‘ottima Sophie, anche per la voce luminosa e ben proiettata a cui si perdonano volentieri errori di pronuncia. L’Albert di Franck Ferrari ha voce possente e brunita, ma, schiacciato dal confronto con Tézier, appare privo di sfumature e un po’ brutale. Straordinario Alain Vernhes, un Bailly di lusso dalla perfetta dizione che, per una volta, rende musicale e gradevole anche “Vivat Bacchus”. Corretti e pure simpatici gli amici vecchietti Christian Jean (Schmidt) e Christian Tréguier (Johann); bravi anche i bambini.
L’allestimento di Jürgen Rose della Bayerische Staatsoper, se pur con qualche buona intuizione, non è allo stesso livello dell’esecuzione musicale; il dispositivo scenico è essenziale e non appaga l’occhio: una scatola bianca con una parete nera sul fondo (simbolico punto di fuga di una situazione che porta al nulla), dalle superfici completamente coperte dei versi manoscritti di Werther, graffiti dalla calligrafia fitta e ossessiva che coprono anche il velatino del sipario. Luci indirette cambiano il colore delle pareti: azzurrine per il chiaro di luna, giallo intenso per la scena della chiesa, grigio per l’atmosfera glaciale del quarto atto e mitigano la bruttezza della scena.
Al regista non importa la ricostruzione storica dell’ambiente (i vestiti sembrerebbero suggerire un’ambientazione anni ‘40) in quanto si focalizza sui personaggi e sulle loro relazioni, il décor è abbozzato da pochi elementi: qualche albero sullo sfondo, un tavolo, una panca, uno scrittoio disposti su di una piattaforma leggermente inclinata che ruota intorno a un grande masso grigio su cui troneggia la scrivania di Werther. Una citazione esplicita de “Il viandante sul mare di nebbia “ di Caspar David Friedrich per rappresentare l’elevazione vertiginosa del protagonista, sempre in scena anche quando l’opera non lo prevede, arroccato e inaccessibile a ribadire la sua “zona d’ombra” di tormento e solitudine. Per sottolineare la distanza dal contesto borghese, nelle arie di massima espansione lirica, l’azione degli altri personaggi si blocca - come fosse un’istantanea o una silhouette - per riprendere al termine dello sfogo lirico di Werther. Peccato che l’intensità del duetto finale, peraltro magnificamente cantato, venga pregiudicata dalla ridicola apparizione di un presepe vivente che emerge dal fondo nero della scena con tanto di Madonna e bambini in abiti alati a intonare il canto di Natale.
Kent Nagano coglie l’essenza della musica di Massenet con una lettura analitica, attenta alle mezze tinte e ai dettagli della strumentazione, che si arroventa per poi evaporare in un mutare dinamico e vibrante che fa cantare l’orchestra senza schiacciare le voci. Sotto il gesto asciutto del Maestro, che volutamente trascura gli aspetti più esteriori e romantici, l’orchestra dell’Opéra trova un’infinità di colori, nuances, spessori perfettamente dosati e squisitamente “francesi” che incarnano l’ideale estetico di Massenet: espressività dell’orchestra e chiarezza di struttura per una musica che accarezza leggera come un velluto, ma capace di rapire e commuovere nel profondo.
Alla fine dello spettacolo un pubblico in estasi ha tributato lunghissimi e calorosi applausi ai due protagonisti, riservando qualche dissenso a direzione e regia.
Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 28/02/09
Ilaria Bellini
Teatro